lunedì 1 agosto 2011

Invisibilia (civilia)



La réalité à axprimer résidait, je le comprenais maintenant, non dans l’apparence du sujet, mais dans le degré de pénétration de cette impression à une profondeur où cette apparence importait peu, comme le symbolisaient ce bruit de cuiller sur une assiette, cette raideur empesée de la serviette qui m’avaient été plus précieux pour mon renouvellement spirituel que tant de conversations humanitaires, patriotiques, internationalistes.”
(Proust, Le Temps retrouvé, II, 30)
…così Longhi, alla ricerca di parole esatte ad introdurre l’arte di Morandi; un passo illuminante di Proust: “la più esatta” introduzione, un accostamento in grado di svelare nella sua pittura non l’apparenza del soggetto ma il soggetto a un livello più profondo, un “degré de penetration” che lasci scomparire la sua ‘apparenza’, là dove essa non è più importante, perché inutile ridondanza di realtà.
Il nome di Morandi che Franco Pozzi ha scelto di porre al centro di una sua opera non è retorica dell’energia che l’autore emana per irradiazione grafica dall’ego, mostrandone la natura ‘assertiva’ come rivela l’etimo di firma (ad -firmare); l’aura egotica si spegne nell’impalpabile spessore della polvere su cui il segno/signature è impercettibilmente posato. Balugina lieve, al contrario, senza incidere il cartoncino di fondo su cui si proietta dal vetro, in forma di luce/ombra, chiedendoci esplicitamente di rinunciare alla percezione addomesticata, oggi, alla volgare evidenza delle immagini. Un’arte che sceglie di sottrarsi all’andazzo, evitando però di rinchiudersi nella torre eburnea. Se un luogo dobbiamo immaginare, spazio di lavoro e creazione, sceglieremo piuttosto la “cella” del monaco, per rifarci ancora alle note Longhiane su Morandi: “il monaco Morandi nella sua cella è dunque il contrario dell’esteta nella sua torre d’avorio”.
Un richiamo alla necessaria ricerca di una spoglia verità; ri-chiamo, per via del nome (come già quello di molti Maestri in altre opere di Pozzi) pronunciato sommessamente, e-vocato al buio. Nel tempo di una apparentemente ritrovata vena civile-artistica, si tende spesso a confondere questa esigenza di verità che l’arte ha da dire al ‘pubblico’ con una sua inevitabile implicazione nei modi di una pseudo divulgazione consenziente al dictat della comunicazione: “l’idée dun art populaire comme d’un art patriotique, si meme elle n’avait pas été dangereuse, me semblait ridicule. S’il s’agissait de le rendre accessible au peuple, on sacrifiait les raffinements de la forme bons pour des oisifs: or, j’avais assez frequenté de gens du monde pour savoir que ce sont eux les véritables illettrés et non les ouvriers électriciens.”(Proust).
Un’opera come quella di Pozzi svolge il fondamentale compito di richiamarci alla Storia, affida al nome il compito di portare in sé una istanza etica da proporre al presente del fare arte e non solo, senza ridurre l’opera a un “messaggio” nell’accezione comune, senza condurre il Maestro “in piazza”, ma rivelandolo nel suo sottrarsi: Atteggiamento, quello della sottrazione e del nascondimento, non a caso spesso rimproverato allo scontroso pittore. Pozzi sembra quasi accogliere l’auspicio di Longhi in “Exit Morandi”, nel gesto di riconsegnare quel nome alla contemporaneità, “a una storia che possa dirsi civile e cioè in grado di intendere ciò che di umano sempre si esprime nell’atto dell’artista”.